Trent’anni di Dayton: dalla pace necessaria all’“Europa zdaj!”

di Daniela Castaldo

In questo commento, pubblicato in occasione dei trent’anni dalla firma degli accordi di Dayton, che posero fine alla guerra in Bosnia-Erzegovina, Daniela Castaldo ci accompagna dentro un paradosso: un piano di pace che ha snaturato la Bosnia multietnica, ma che al tempo stesso ha fermato tre anni di massacri. Tra l’ingegneria istituzionale più complessa d’Europa e le spinte dal basso di una società civile che potrebbe ricucire ciò che la guerra ha lacerato, emerge un bilancio problematico anche per la comunità internazionale. Che cosa significa, per l’identità europea e occidentale, quando gli attori della pace faticano, esitano e si arenano in un’elegante paralisi, incapaci persino di definire la natura di un conflitto? E cosa dice di noi il fatto che i piani di spartizione su cui Dayton si fonda fossero stati immaginati prima ancora che il conflitto esplodesse, come se la Bosnia fosse un fastidio geopolitico più che un Paese con una storia e una cultura da preservare?

Dayton Peace Agreement, Guerra in Bosnia, Firma, Parigi, 1995

Il momento della firma degli Accordi di Dayton. Fonte: U.S. Department of State

Premessa

“And people die out there….Bosnia, was so unkind…

all the love we need isn’t there. Sarajevo erects another tomb.”

Gli struggenti versi di questa canzone dei Cranberries richiamano alla mente le immagini dell’assedio più lungo del secolo e di uno dei conflitti più atroci consumatosi in un’Europa convinta di aver archiviato il sanguinoso passato dei conflitti mondiali e di poter fungere da “fucina di pace”.

The United Nations’ experience in Bosnia was one of the most difficult and painful in our history. No one regrets, more than we, the opportunities for achieving peace and justice that were missed. No one laments, more than we, the failure of the international community to take decisive action to halt the suffering and end a war that had produced so many victims. We will never forget that Bosnia was as much a moral cause, as a military conflict. The tragedy of Srebrenica will haunt our history forever.
— Kofi Annan durante la cerimonia di commemorazione svoltasi a Sarajevo l’11 ottobre 1999

La morte di Tito aveva decretato la fine del “modello jugoslavo” (“Sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito!), permettendo l’esplosione delle istanze nazionaliste e indipendentiste alimentate dai leader serbi e croati ed esacerbate dalla crisi economica e sociale. Queste sono le premesse e le cause della guerra dimenticate durante la stesura degli accordi di pace che, nel dicembre 1995, posero fine a quegli anni di crimini e brutale violenza, nonché di “assordante” silenzio da parte della comunità internazionale.

Secondo Silvio Ziliotto e Luca Leone, “[s]toricamente la Bosnia Erzegovina è definita quasi per sottrazione: come la terra né serba, né croata, né orientale, né occidentale, ma appunto a sé stante, cristiana e musulmana insieme. È il cosiddetto principio delle “terre storiche” dove la geografia dell’unità deve prevalere sulla storia delle dominazioni e della stessa composizione etnica. È anche il principio che fu rispettato all’atto di nascita della Jugoslavia di Tito, quando si decise che la Bosnia Erzegovina avrebbe mantenuto una sua forma statale, senza essere smembrata tra le altre repubbliche.” 

L’agognata pace, invece, affondava le radici in una mappa della Bosnia-Erzegovina tracciata dal conflitto, non dalla storia. Quell’unicum fatto di popoli, lingue e religioni diverse che aveva caratterizzato la Bosnia sin dal IX secolo scomparve nel complesso assetto politico e giuridico definito a Dayton. Per porre fine agli ormai esasperati nazionalismi, all’odio radicato tra le parti e individuare una soluzione politica duratura, i protagonisti della “pax americana” hanno infatti optato per un modello “etnocratico” e una suddivisione dei territori che assicurasse il rispetto del principio di rappresentanza politica paritaria, ma incapaci di rispecchiare i valori di una società intrisa di condivisione e multiculturalismo.

A volte si aveva l’impressione che la penisola fosse davvero vasta e che ci fosse posto per tutti: per lingue e religioni diverse, per una dozzina di popoli e di Stati, di regni e di principati.
— Ismail Kadaré, Tre canti funebri per il Kosovo, 1999, p.9

Oggi la Bosnia si configura come un sistema che ha al centro la relazione tra il cittadino e il proprio ethnos, subordinandovi quella tra il cittadino e lo Stato. Sulla base di questo assetto, nella Repubblica di Bosnia ed Erzegovina convivono entità costituite su base etnica. Nella Republika Srpska vive la maggior parte della popolazione serba, mentre nella Federazione di Bosnia ed Erzegovina risiede la maggioranza dei croati e bosgnacchi. La “pace necessaria” ha cercato di modificare i confini della società bosniaca, dimenticando—o meglio, mancando di riconoscere—il suo carattere pluralista, multietnico e multiconfessionale. Forse per questo, ancora oggi, un’alternativa al manicheismo di Dayton non esiste.

La complessa impalcatura degli Accordi di Dayton

Il processo negoziale di Dayton reca l’impronta degli Stati Uniti che, dopo il crollo dell’Urss, hanno cercato di definire la loro nuova postura internazionale. Richard Holbrooke, Vice  Segretario di Stato americano, coadiuvato dallo svedese Carl Bildt in qualità di rappresentante dell’Unione europea e dal Ministro degli esteri russo Igor Ivanov, ricoprì un ruolo chiave, riuscendo a superare l’impasse che aveva contraddistinto la prima settimana di trattative.

I negoziati si svolsero presso la base di Wright-Patterson a Dayton, in Ohio, dove, per ventuno giorni, oltre a definire gli aspetti tipici di un armistizio, fu intessuta una complessa rete giuridica, in cui elementi etnici, religiosi, politici e militari risultano strettamente intrecciati.  Il risultato fu un’abile e complessa azione diplomatica intrisa di compromessi ed ultimatum: l’approccio “stay or leave” riuscì a porre fine al conflitto e a preservare l’integrità della Bosnia. Al termine dei negoziati, fu convenuto che gli attori coinvolti nel processo di pace non avrebbero potuto porre in discussione i contenuti concordati e che nessuna successiva approvazione parlamentare sarebbe stata necessaria.

La foto ritrae un momento dei negoziati di Dayton. Fonte: The National Museum of American Diplomacy

La solenne cerimonia della firma, svoltasi il 14 dicembre 1995 a Parigi, rappresentò principalmente un tentativo da parte dei leader europei, in particolare del Presidente francese, di dimostrare che anche l’Europa aveva fornito il suo importante contributo al processo di pace. Il ruolo decisivo di attori estranei al conflitto è testimoniato dalla natura stessa dell’accordo che, oltre ad obbligare Croazia, Repubblica Federale di Jugoslavia e Bosnia ed Erzegovina a rispettare tutti gli obblighi previsti, reca un’ulteriore garanzia data dalla sottoscrizione dell’accordo quadro generale da parte di Stati terzi, quali Francia, Germania, Russia, Regno Unito e Stati Uniti, in qualità di “testimoni”. Un precedente può trovarsi negli Accordi di Camp David del 1978 e nel Trattato di pace di Washington del 1979 tra Egitto e Israele. Anche in quel caso gli Stati Uniti, oltre a firmare gli accordi, assunsero nei confronti di Egitto e Israele un obbligo giuridico di garantire il rispetto dei trattati. L’importanza attribuita al ruolo dei Paesi terzi è confermata anche dagli aspetti militari e territoriali della pace sui quali una forza multinazionale (IFOR) fu incaricata di vigilare.

Anche la gestione degli aspetti civili ed istituzionali, così come l’attività di facilitazione del dialogo tra le parti coinvolte, si configuravano come funzioni strettamente connesse alla natura internazionale della pace, e pertanto necessitarono dell’istituzione di una figura ad hoc, l’Alto Rappresentante, nominato nel dicembre 1995, in seno alla Peace Implementation Conference. Inizialmente investito del ruolo di moderatore al fine di garantire la continuazione degli sforzi di assistenza umanitaria, la ricostruzione economica, la creazione di istituzioni politiche e costituzionali, la promozione del rispetto dei diritti umani e il ritorno delle persone sfollate e dei rifugiati, è spesso intervenuto per superare i veti e lo stallo imposti dai partiti nazionalisti, facendo ricorso ai suoi poteri speciali, anche in campo legislativo. Tale sostituzione, che ha comportato un’interminabile dipendenza e l’indebolimento degli organi costituzionali, si è rivelata una sorta di “trappola della transitorietà” da cui la Bosnia, ad oggi, non è ancora riuscita a liberarsi.

La complessità dell’architettura di Dayton si manifesta anche nel lungo elenco di principi enunciati nell’allegato 4, che costituisce l’attuale Costituzione della Bosnia ed Erzegovina. Lungi dall’essere frutto di un coinvolgimento dal basso, si configura piuttosto come il controverso risultato del compromesso raggiunto tra i protagonisti della pace e le due entità del Paese, la cui personalità giuridica fu data per scontata. Il lungo e complesso elenco di diritti, che la Costituzione intende riconoscere e garantire, rappresenta un potenziale che, nel corso degli anni, difficilmente è stato tradotto in realtà.

Dal punto di vista istituzionale, inoltre, la previsione di organi legislativi ed esecutivi basati sulla condivisione del potere in senso consociativo, sulla decentralizzazione e sui veti etnici ha generato effetti diversi da quelli sperati. I proclamati intenti di favorire una partecipazione e cittadinanza consapevoli si sono infatti scontrati con la rigidità di un sistema che, nel tentativo di salvaguardare l’ethnos, ha completamente escluso il popolo. Oltre all’esclusione dagli accordi di pace, svoltisi a porte chiuse, occorre evidenziare che il sistema di governance istituito a Dayton non può beneficiare del contributo da parte di coloro che ne vivono le ricadute, le persone comuni e coloro che non sono etnicamente “incasellabili”.

Nel dicembre 2009 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) emise una sentenza relativamente al caso Sejdic e Finci vs. Bosnia-Erzegovina che stabilì inequivocabilmente che la Costituzione e la legge elettorale della Bosnia-Erzegovina violavano l’art. 14 in combinato disposto con l’art. 3 Prot. I, nonché l’art. 1 prot. XII della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. La Costituzione e la normativa in vigore nello Stato balcanico stabiliscono, infatti, che per potersi candidare alle elezioni presidenziali o per poter concorrere alle elezioni della Camera alta del Parlamento confederale i candidati debbano necessariamente autoidentificarsi come “Bosniaci”, “Croati” o “Serbi”. In altre parole, per poter partecipare all’agone politico ed ambire alle più alte cariche dello Stato i candidati debbono necessariamente dichiarare la loro appartenenza ad una delle tre principali nazionalità costituenti lo Stato bosniaco-erzegovese, e ciò nonostante il fatto che la Bosnia-Erzegovina presenti al proprio interno una situazione etnica estremamente complessa e ramificata, con oltre 17 minoranze etniche, religiose e nazionali.
— Ezio Benedetti, Il principio di condizionalità nei processi di allargamento dell’Ue: la Bosnia-Erzegovina ed il caso Sejdic-Finci. Ordine internazionale e diritti umani, 2014.

L’accordo e la Costituzione che ne è scaturita hanno contribuito a reificare una percezione della Bosnia come un insieme di popoli in conflitto, ai quali riconoscere dei diritti garantendo la rappresentanza politica. Ma i tre popoli costituenti (bosgnacchi, croati di Bosnia e serbi di Bosnia) ai quali la comunità internazionale si è rivolta non costituiscono le uniche comunità rappresentative della Bosnia, come lo stesso accordo statuisce. L’allegato 7 garantisce a tutti i rifugiati e sfollati il diritto al ritorno, ipotizzando una realtà cosmopolita e pluralista che però contraddice la realpolitik e la previsione di una struttura basata sulla condivisione del potere e del territorio tra le tre nazionalità promosse a Dayton.

Le sfide post Dayton

Dayton non è stata “la panacea di tutti i mali” poiché la sua stessa complessità ne ha resa difficile sia l’attuazione che eventuali modifiche. Occorre, tuttavia, riconoscere che è stata la migliore soluzione possibile in quel momento storico per poter porre rapidamente fine alla guerra senza smembrare l’intero Paese, con conseguenze geopolitiche destabilizzanti per l’intera regione, o trasformarlo in protettorato.

In questi trent’anni post accordo, la Bosnia si è confrontata con diverse sfide. In primo luogo, i cittadini, memori della tragedia vissuta, si sono adoperati per la costruzione e il mantenimento della pace, archiviando definitivamente una conflittualità a cui non erano abituati. Croati, serbi e bosgnacchi hanno infatti potuto godere di secoli di convivenza e accettazione pacifica che solo la Seconda guerra mondiale e il conflitto esploso nel 1992 hanno drammaticamente compromesso. Il processo di costruzione della pace, seppur promosso in un contesto politico-istituzionale molto fragile, rappresenta di per sé un successo, anche rispetto ad altri focolai di guerra mai spenti.

Nonostante le recenti campagne elettorali siano spesso costellate di provocazioni politiche atte a rievocare nazionalismi e divisioni, la pace “consociativa” è sopravvissuta alle battute di arresto e alle difficoltà che il sistema istituzionale, basato su meccanismi di power-sharing, ha dovuto affrontare. A differenza di altri Paesi, inoltre, la Bosnia ha dovuto rimarginare velocemente ferite ancora recenti e rispettare le tabelle di marcia imposte da una comunità internazionale che però viaggiava ad una velocità diversa. Tale necessità ha comportato la coesistenza, in un range temporale piuttosto ridotto, di più transizioni, dall’economia pianificata a quella di mercato, dal supporto estero all’autosostenibilità, dall’economia basata sull’importazione a quella di esportazione, che la Bosnia ha dovuto fronteggiare affidandosi alla comunità internazionale e alle nascenti istituzioni democratiche. Queste rapide inversioni di rotta hanno contribuito ad esacerbare le divisioni sociali tra coloro che hanno beneficiato dei cambiamenti e la maggioranza della popolazione, costretta ad affrontare la dilagante disoccupazione, l’emigrazione, l’impoverimento e la crisi demografica. Tale condizione si inserisce in un quadro economico già debole, con un PIL pro capite e un tasso di inflazione che collocano la Bosnia-Erzegovina tra i cinque paesi peggiori in Europa.

Last but not least, la sfida rappresentata dal processo di integrazione europea. Attualmente, l’Unione Europea è il principale attore internazionale coinvolto nello sviluppo della Bosnia ed Erzegovina e il più interessato a preservare stabilità e sicurezza nella zona, nonché a perseguire obiettivi e finalità della politica di coesione regionale. Attraverso missioni di mantenimento della pace come EUFOR Althea, l’Unione europea supporta la Bosnia nel suo processo di promozione e attuazione delle riforme necessarie.

La prospettiva di adesione all'UE, scandita dallo slogan ‘Europa zdaj!’, ‘Europa subito!’, è stata presentata in occasione del vertice UE-Balcani occidentali tenutosi a Salonicco nel 2003. Nel 2019 sono state poi definite 14 azioni prioritarie fondamentali da promuovere per poter dare inizio ai negoziati di adesione, tra cui riforme in materia di democrazia, Stato di diritto e diritti fondamentali. Nelle ultime relazioni della Commissione sulla Bosnia-Erzegovina, riferite alle annualità 2023 e 2024 e approvate lo scorso luglio, si evince che il percorso del Paese verso l’integrazione europea è stato piuttosto lento a causa dell’impasse politica e delle mancate riforme costituzionali ed elettorali. Sono infatti necessarie riforme costituzionali per garantire l’uguaglianza politica, la non discriminazione di tutti i cittadini, l’integrità e l’indipendenza della Commissione Elettorale Centrale (CEC).

Dal rapporto si evince inoltre che le istituzioni presentano ancora elementi di criticità. Il Parlamento esercita i propri poteri in modo solo parzialmente efficace e la produzione legislativa è diminuita. Anche il controllo sull’esecutivo è rimasto debole. L’Assemblea  della Republika Srpska ha adottato diverse leggi in violazione dell’ordine giuridico e costituzionale, successivamente abrogate dalla Corte Costituzionale. Lo stesso potere esecutivo ha scarsa capacità di coordinamento e pianificazione delle politiche. Le organizzazioni della società civile operano in un contesto restrittivo, soprattutto nella Republika Srpska, ove sono ancora presenti meccanismi pesantemente sanzionatori atti a scoraggiare processi di coinvolgimento e consultazione dal basso.

In merito alla riforma della pubblica amministrazione, nonostante sia stato adottato un nuovo piano d’azione per il 2023-2027, che ha consentito di promuovere riforme relative al sistema tributario, la Bosnia-Erzegovina deve ancora completare i passaggi essenziali per migliorare il suo funzionamento complessivo, rendendo la funzione pubblica professionale e depoliticizzata.

Infine, il sistema giudiziario è arenato in una fase iniziale di attuazione delle raccomandazioni Ue. In particolare, si registra una certa stagnazione che inficia un’efficace lotta alla corruzione e prevenzione dei conflitti di interesse. Il quadro generale per i diritti fondamentali è in gran parte definito, ma necessita di miglioramenti. Il Paese non ha ancora adottato riforme costituzionali ed elettorali che consentano a tutti i cittadini di esercitare efficacemente i propri diritti politici, in particolare favorendo una convergenza tra la Costituzione del Paese e la giurisprudenza Sejdić-Finci della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Tra i progressi sinora registrati vi sono l’adozione di una legge sulla violenza domestica e la modifica del codice penale, che hanno favorito una maggiore convergenza con la Convenzione di Istanbul e con l’acquis dell’UE. Nonostante la strada da percorrere sia ancora lunga e tortuosa a causa della complessa struttura statale nata dagli accordi di Dayton, dalle divisioni etniche e dal frequente esercizio del diritto di veto, Bruxelles non può più rimandare a lungo la sua politica di allargamento e vicinato. Le riforme volute dall’Unione Europea, se non vissute come obblighi calati dall’alto ma come un’occasione di confronto tra gli attori bosniaci, potrebbero rappresentare un’occasione per scrivere il presente con maggiore fiducia nella stabilità e nel progresso.

Quando le ferite della guerra e della dissoluzione finalmente guariranno, e l’integrazione sarà vista da tutti come naturale, il Paese potrà senza dubbio dare il proprio considerevole contributo al nostro futuro comune.
— Carl Bildt, Co-Presidente, European Council on Foreign Relations ed ex Alto Rappresentante in Bosnia-Erzegovina

Conclusioni

Gli accordi di pace furono necessari, dato che imposero con successo il “cessate il fuoco”, ma non sufficienti. Ciò nonostante, non possiamo attribuire a Dayton e alla sua strategia diplomatica le responsabilità di tutti i mali della Bosnia.

Dayton ha dato vita a un sistema decisionale complesso, le cui contraddizioni hanno avuto ricadute sulla governance e su tutti gli ambiti della vita bosniaca. Dall’altro lato, però, ha obbligato tre leader, coinvolti in una delle guerre più spietate e sanguinose dello scorso secolo, a sedersi allo stesso tavolo e firmare un documento condiviso.

Le criticità lasciate in eredità dagli accordi di pace e tuttora irrisolte potrebbero favorire una riflessione su alcuni aspetti meritevoli di approfondimento. In primo luogo, l’esperienza di Dayton dovrebbe indurre la comunità internazionale a considerare la  necessità di creare le condizioni affinché eventuali situazioni di conflittualità possano essere intercettate ancora prima dei conclamati massacri perpetrati ai danni delle popolazioni e affrontate rapidamente senza compromettere lo sviluppo politico, economico, sociale e culturale del Paese interessato.

È inoltre auspicabile non confondere la necessaria assistenza internazionale con la creazione di protettorati e meccanismi che, lungi dal favorire l’emancipazione, contribuiscono a diffondere una cultura di dipendenza dalla leadership internazionale.

The Multicultural Man”, Monumento a Sarajevo, 1997

Dayton, infine, ci ha insegnato che, nonostante le numerose difficoltà non adeguatamente affrontate e risolte, la Bosnia rimane un avamposto ove la mescolanza di popoli, lingue e culture funge da leitmotiv. Si potrebbe affermare, forse in maniera audace, che per certi aspetti risponde alle caratteristiche tracciate dal modello di integrazione europea: “Uniti nella diversità”. Prima che questa parte d’Europa scompaia per sempre e “diventi solo nostalgia”, occorrerebbe comprendere le peculiarità della sua comunità e del suo patrimonio ed agire in funzione della loro valorizzazione.

“Non abbandonate il cortile di sgombero! Se crolla quello, crolliamo tutti”!

Riferimenti Bibliografici

Silvio Ziliotto e Luca Leone (a cura di), Dayton 1995 La fine della guerra in Bosnia Erzegovina, l’inizio del nuovo caos. Infinito Edizioni, 2020.

Ismail Kadaré, Tre canti funebri per il Kosovo. Longanesi, 1999.

Paola Gaeta, “Symposium: The Dayton Agreements: A Breakthrough for Peace and Justice? The Dayton Agreements and International Law”. European Journal of International Law, Volume 7, Issue 2, 1996, Pages 147–163.

The General Framework Agreement for Peace in Bosnia and Herzegovina, Annex 10: Agreement on Civilian Implementation - Article I: High Representative.

Sara Varcounig Balbi, “La lenta scomparsa della Bosnia-Erzegovina”, Balcani e Caucaso Transeuropa, 25 Maggio 2023

Ezio Benedetti, “Il principio di condizionalità nei processi di allargamento dell’Ue: la Bosnia-Erzegovina ed il caso Sejdic-Finci”. Ordine internazionale e diritti umani, 2014.

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